Come ho annunciato, sabato parto per la Germania. E’ dal novembre del 2005 che non ci metto piede e sono leggermente agitata. In tutte le storie d'amore, stare un po' separati fa bene, ravviva la fiamma e fa capire quanto si tiene all'altro. Ecco, la mia con la Germania è davvero una storia tormentata, di quelle che ci si lascia e ci si prende, si fa pace con passione, per poi litigare di nuovo e tornare a ricercarsi.
Quando vivevo a Friburgo non sopportavo la pioggia. Voglio dire, io sono una che ha sempre adorato le piogge nei pineti e i temporali, l'odore di muschio, di acqua in movimento e di terra bagnata, ma odio il Nieselregen (il mio Biermann chiama così Günter Grass, ci sarà pur una ragione), quella pioggerellina impalpabile (oddio quanto fa blog questo aggettivo), che non sai da che parte parare con l’ombrello, finché poi esci senza, tanto sai che ti bagni comunque. Quel cielo molto e sempre grigio che ti chiedi perché i bambini lo disegnano blu, le lumache sulla faccia, i capelli sempre in disordine e la muffa sotto le ascelle anche a luglio. Non mi dava fastidio che piovesse, ma che non smettesse mai.
E mi dava fastidio anche che nessuno rispondesse ai miei Guten Morgen e ai miei sorrisi, mi dava fastidio che la verdura avesse tutta lo stesso colore (beige stinto) e lo stesso sapore (di poliuretano espanso bollito), mi dava fastidio che il vicino mi rovistasse nella spazzatura per vedere se avevo fatto bene la Mülltrennung, mi dava fastidio che mi seguissero nei negozi fichi perché con l’aria da mediorientale che mi ritrovo temevano che facessi chissà cosa e mi dava fastidio anche il cambio di espressione della gente quando dicevo di essere un cervello in fuga e non un Gastarbeiterkind (parola intraducibile e oscena, corrispettivo vago di ‘figlio di immigrati’).